Evidentemente, per avere una comprensione almeno parziale, di una esperienza così irrazionale che caratterizza da sempre la storia dell’uomo, è necessario analizzare e ricercare nella profondità dell’individuo quelle spinte emotive ed affettive così forti ed incoercibili che rappresentano il carburante, ed allo stesso tempo, il motore per avviare un’esperienza tanto crudele quanto distruttiva.
Il coinvolgimento della struttura sociale e degli Stati, come rappresentazione di individui e popoli, assume connotati che, a voler leggere in termini di logica e razionalità, appaiono contraddittori e fuori ogni forma di buon senso.
Freud suggerisce una chiave di lettura disincantata rispetto ai tentativi di interpretare il comportamento umano attraverso una sua visione in senso morale (guerra e disinganno, 1915).
L’inizio di una guerra si ha quando, nei termini di lettura della vita affettiva individuale, diventa lecito compiere collettivamente azioni, quali le violenze e le ingiustizie, che all’interno della organizzazione sociale di appartenenza rappresenterebbero un disonore e una colpa grave per l’individuo.
Ma le violenze e le ingiustizie, vietate al singolo, sono monopolizzate dalle Nazioni ed hanno motivo di essere perpetrate in nome della ragion di Stato.
La morale si muove secondo criteri di divisione tra buono e cattivo e può essere quindi espresso un giudizio di violenza buona o cattiva modificando opportunamente il proprio punto di osservazione.
In realtà, la società cosiddetta civile punta pretendere un buon comportamento dell’individuo, senza preoccuparsi delle tendenze che ne sono alla base: ad un comportamento socialmente lodevole e buono spesso non corrisponde un affinamento della vita affettiva, la tendenza all’egoismo non subisce trasformazioni in senso sociale, ma il buon comportamento in senso sociale si realizza nella misura in cui ciò si accorda ai suoi fini egoistici (vizi privati, pubbliche virtù).
A nulla serve invocare l’intervento della coscienza come giudice implacabile della morale: nella misura in cui, per la sua origine di angoscia sociale, la coscienza viene decompressa dalla caduta del biasimo collettivo, le tendenze più profonde al primato narcisistico vengono private del loro contenitore e si esprimono in assenza di quei freni che l’hanno compressa nell’adattamento alla vita sociale.
In altri termini, il peggior comportamento non è tanto peggiore di quanto lo possiamo immaginare per il semplice motivo che non esiste un comportamento tanto alto quanto lo abbiamo immaginato.
E’ ciò che accade ogni volta che ci addormentiamo, sprofondando in una condizione priva di quell’abito morale acquisito così dolorosamente, ritrovandolo puntualmente presente al risveglio, e che tuttavia risulta non pericoloso sul piano comportamentale perché il sonno stesso paralizza e condanna all’inattività.
Ancora Freud, riferendosi alla dominanza nei sogni di motivazioni puramente egoistiche, riporta l’esempio di un suo amico inglese, che aveva sostenuto questo principio davanti ad una dotta assemblea americana; una signora del pubblico osservò che quanto egli diceva poteva essere vero in Austria, ma che, per ciò che la riguardava, teneva ad assicurare che lei ed i suoi amici provavano, anche nei sogni, sentimenti altruistici. Il suo amico, sebbene fosse anch’egli di razza inglese, si vide costretto a rispondere che nei sogni le più stimabili signore americane non avevano proprio nulla da invidiare, quanto ad egoismo, alle austriache.
E se è vero che la coscienza ha il suo principio originario nella angoscia sociale, riconoscendo nel senso di colpa l’unico freno a spinte sconvenienti, che comunque non perdono la loro forza, trovo aderente l’osservazione di due miei pazienti che, a proposito degli attentati in America, si sono espressi il primo vedendo un’equivalenza dei fatti accaduti con la conflittualità interiore e l’ambivalenza affettiva che appartiene a ciascuno di noi, l’altro ipotizzando addirittura una macchinazione dello stesso Presidente degli Stati Uniti per potersi autorizzare all’attuazione della guerra stessa.
In entrambi le considerazioni è importante sottolineare che in termini intrapsichici la contrapposizione delle posizioni ha sempre un’unica matrice, ritrovando le motivazioni nell’addebito proiettivo all’altro, costruendosi così il nemico su misura.
Che la guerra abbia a che vedere con l’inconscio lo suggerisce anche il fatto che tutti la condannano, ma tutti allo stesso tempo la praticano, anche se, per renderla più accettabile e più giusta, la chiamano con altri nomi.
Se il risultato della civilizzazione, intesa come maturazione ed evoluzione delle tendenze primitive, è stato quello di cambiare il nome al Ministero della Guerra in Ministero della Difesa, direi che non siamo di fronte ad un bel risultato.
D’altro canto, chi mai si imbarcherebbe in una guerra se non fosse inconsciamente convinto di uscirne indenne ed anzi, con notevoli vantaggi da portare a casa?
Balzac riporta nel suo testo “Pere Goriot” uno scritto di Rousseau, in cui viene chiesto al lettore cosa farebbe se, senza lasciare Parigi, e naturalmente con la certezza di non essere scoperto, potesse, con un semplice atto della volontà, uccidere un vecchio Mandarino a Pechino, e la cui morte gli procurerebbe un gran vantaggio. Egli conclude che non darebbe un soldo per la vita di quel dignitario.
Freud ci ricorda che il nostro inconscio si comporta nei confronti della morte esattamente come l’uomo primitivo: conta sulla morte del nemico, considerando impossibile la propria.
La guerra diventa l’occasione di realizzare ciò che l’inconscio si limita a pensare ed augurare; scrive Freud: “Il nostro inconscio prende l’augurio di morte molto più sul serio di quanto noi stessi non pensiamo, e gli dà un tono che la nostra coscienza è subito pronta a sconfessare. Il nostro inconscio uccide anche per dei particolari, come l’antica legislazione ateniese di Dracone, esso non conosce per i crimini altra punizione che la morte, giacchè ogni torto inflitto al nostro Io autocratico ed onnipotente è, in fondo, un crimine di lesa maestà”.
Ci si può, in definitiva, chiedere se sia più intelligente fare una guerra o più intelligente non farla: Freud ammonisce che il pensiero di considerare l’intelligenza come una forza autonoma ed indipendente non tenga conto della sua dipendenza dalla vita affettiva. Egli scrive: “Il nostro intelletto può lavorare efficacemente nella misura in cui non risenta di influenze affettive troppo intense; in caso contrario, esso agisce semplicemente come uno strumento al servizio di una volontà ed ottiene il risultato che questa gli ispira. Perciò, le argomentazioni logiche non possono niente contro gli interessi affettivi, ed è per questo che, nel mondo degli interessi, la lotta a base di ragionamenti è tanto sterile”.
L’intelligenza è stata ed è tuttora utilizzata per rendere i sistemi di distruzione più efficaci, gli scienziati inventano le “bombe intelligenti”, intelligenti perché capaci di una maggior precisione negli obiettivi da distruggere, la bomba al neutrone, così intelligente da distruggere ogni forma di vita, lasciando intatte le cose inanimate (che, nella logica del consumismo, possono essere riutilizzate), gli antropologi si affannano a dimostrare l’inferiorità del nemico che apparterrebbe ad una razza inferiore e degenerata, gli psichiatri scoprono nello stesso nemico perturbamenti psichici ed intellettuali, il tutto per attenuare il senso di colpa di azioni altrimenti sconvenienti ed indegne.
Ed è per questo che uccidere il Mandarino è un modo intelligente di fare la guerra.
Una delle caratteristiche della guerra è quella di costringere l’uomo a modificare il proprio atteggiamento nei confronti della morte.
L’uomo “civile” non ama soffermarsi sul pensiero della morte, e quando vi è costretto perché questa colpisce le persone a lui vicine, tende a visualizzarla come qualcosa di accidentale, di occasionale, come a voler far sopravvivere il pensiero inconscio della propria immortalità.
L’adagio latino “Odie mihi, cras tibi”, oggi a me, domani a te, che trova fondamento nell’ineluttabile certezza della morte, non può trovare facile accettazione in chi si sente immoralmente vivo, tanto che la sagacia partenopea di Totò ha saputo trasformarlo in “Oggi a te, domani ad un altro”.
Ma in presenza di una guerra, diventa impossibile negare la morte e questa volta non si può pensarla più in termini di accidentalità o casualità: la morte non fa più distinzione tra nemico ed amico e la vita torna ad essere interessante, ritrova il suo contenuto.
E un altro detto latino, “Mors tua, vita mea”, subisce una trasformazione letterale, alla luce delle capacità distruttive delle armi moderne, e che Fornari, a proposito della condizione bellica dettata dall’uso della bomba atomica, suggerisce di leggere così: “Mors tua, mors mea”.