Attualmente nella nostra società stiamo assistendo ad un fenomeno che potremmo definire come una sorta di dissoluzione del “principio normativo” intendendo con questo termine il rapporto che lega il soggetto umano alla Legge, la norma come necessità umana e sociale e gli effetti di questo fenomeno si possono cogliere in svariati ambiti.
Vorrei soffermarmi sulle conseguenze che una tale alterazione del rapporto, che il soggetto intrattiene con la norma, ha nell’ambito della cura dell’essere umano sofferente ed in particolare dal punto di vista del medico che , fino a un po’ di tempo fa, veniva chiamato medico di fiducia e che oggi è il Medico di Medicina Generale.
In che modo si è trasformato?
Tutti noi, o meglio tutti noi di una certa età, abbiamo presente quello che era il rapporto che legava il “malato” con il “dottore”.
Sicuramente potremmo definirlo come un “un rapporto asimmetrico” cioè un rapporto dove i due soggetti non erano, per così dire, “alla pari” .
Il medico era il depositario di un sapere a tratti oscuro e quasi magico, almeno agli occhi dei pazienti, che ne connotavano un ruolo sociale e delle funzioni ben precise.
Il malato era il sofferente, non a caso definito paziente, che anelava la parola salvifica del dottore e cioè di colui che, al pari dell’analista, era ritenuto il “soggetto supposto sapere”, fornendogli “il posto” da cui svolgere le sue funzioni.
Specifico che quando parlo del “dottore” mi riferisco essenzialmente al Medico di Famiglia, così come veniva definito un tempo, e cioè quel medico che ha o dovrebbe avere a cuore la cura del malato piuttosto che la cura della malattia.
All’interno di questo rapporto, regolato da dei limiti molto precisi, dottore e malato occupavano posti precisamente stabiliti che permettevano ad entrambi di svolgere le loro funzioni.
Questo tipo di rapporto, con il complesso delle sue norme non scritte, legava medico e paziente in una relazione di fiducia che conteneva l’angoscia del malato sofferente e del medico che si proponeva di aiutarlo.
Quindi Il contenimento dell’angoscia di entrambi si basava sulla tacita accettazione di un complesso di norme, rituali e responsabilità .
Ovviamente questo non escludeva la possibilità di errori, incompetenze o perversioni di ruoli e funzioni ma c’era comunque la possibilità di dominare il dolore, la paura, il senso di morte che lo stato di malattia scatena.
Il medico sentiva di occupare un posto che aveva ottenuto grazie ad un investimento e guadagnato al termine di un percorso di studi scientifici e umanistici ma anche grazie all’adesione ad un impegno che lo legava in primis al paziente e alla funzione di lenirne le sofferenze.
Il rito del giuramento di Ippocrate, ormai desueto, ne era un aspetto.
Erede anche degli stregoni e guaritori era detentore di un potere a volte quasi occulto ma era comunque libero di produrre un pensiero originale, di utilizzare delle conoscenze scientifiche che doveva possedere calandole nello specifico rapporto umano che stava vivendo con quel paziente.
La sua parola aveva un peso e poteva rappresentare un valido strumento terapeutico.
Il paziente sapeva quale era il suo posto concedeva la sua fiducia e il suo rispetto al medico al quale corrispondeva, di regola, un compenso e poteva così affidarsi alla sua parola accettando di farsi condurre nel percorso della cura anche laddove era chiaro che non avrebbe potuto ottenere la guarigione intesa come restituito ad integrum.
Non era detto che comunque le cose filassero sempre così liscie ma si dava la possibilità di un rapporto terapeutico.
In un rapporto così strutturato - rapporto detto di “fiducia” come di “fiducia” era denominato il medico scelto dal paziente - si dava la possibilità al medico di prendersi cura del soggetto sofferente oltre a ciò che oggi comunemente si intende per terapia.
Attualmente di questo rapporto non rimangono che vaghe tracce.
Il Medico di Medicina Generale “moderno” si forma in un percorso di studi che esclude qualsiasi connotazione umanistica.
Nella sua preparazione, che pure è lunga ed impegnativa, in sostanza, non c’è stato spazio spazio neanche per fermarsi a riflettere al rapporto che egli avrà con il paziente e all’importanza che la sua parola può avere per il malato.
E’ stato addestrato a confrontarsi con I deficit dei vari organi e anche il rapporto fisico con il paziente ha avuto un ruolo del tutto secondario nella sua preparazione.
Tutto è affidato alle nozioni scientifiche, agli schemi, agli algoritmi .
I suoi limiti sono quelli imposti dalle linee guida relative a specifiche malattie e l’oggetto del suo interesse non è più un paziente ma un utente di un servizio.
Il “malato” attuale spesso non si rivolge al medico per chiedergli di aiutarlo ad affrontare una malattia, un disagio, un dolore con l’angoscia che tutto ciò si porta dietro.
Spesso sente, in quanto utente, di poter pretendere un servizio e cioè che il medico gli risolva completamente, e senza che lui debba prendersi nessuna responsabilità, il proprio disagio.
L’atteggiamento di delega è totale. Tutto deve tornare come era “prima”.
Anche il concetto di morte , inteso anche solo come limite, viene sistematicamente rimosso.
La possibilità di dover affrontare il dolore , di dover accettare l’invecchiamento con i profondi cambiamenti che a tutti i livelli questo comporta, pare oggi inconcepibile.
Il fantasma di onnipotenza che agisce sia nel medico che nel paziente sfocia in una fantasmatica paranoica e persecutoria.
Non c’è più un tempo per ogni cosa ma ogni tempo è per tutto.
Il paziente moderno spesso si rivolge al proprio medico, “il medico di sfiducia”,esclusivamente per ottenere ciò che lui sa già e non certo per affidarsi ai suoi consigli in un rapporto di reciproco rispetto.
Sicuramente la tecnologia ha contribuito in maniera determinante a elevare il paziente a peritus peritorum dell’operato del medico.
Ormai tutti sanno tutto e il vecchio rapporto di fiducia, seppure illusorio, con tutte le regole e i limiti del caso è stato soppiantato da un delirante rapporto immaginario dove tutto può e deve essere risolto.
La rete internet con la sua promessa di rendere disponibile qualsiasi risposta a qualsivoglia quesito in tempo reale ha dato a tutti una delirante sensazione di onnipotente onniscienza e ha stravolto tanti rapporti umani e tra cui anche il rapporto con il proprio medico.
Capita che il paziente semplicemente si rivolga al medico perché faccia ciò che il Dottor Google ha già suggerito.
Il medico, anch’egli in fuga dai propri limiti e responsabilità e privato dell’autorevolezza della sua parola, si sente in balia del paziente e cerca rifugio, ad esempio nella così detta “medicina difensiva” ove lo scopo non è la cura del paziente ma operare in modo da non poter essere attaccato giuridicamente.
Si nasconde in un rapporto medico-organo fatto di protocolli condivisi che nullificano le sue capacità diagnostiche e terapeutiche nonché la soggettività del paziente venendo meno alle sue responsabilità nei confronti del soggetto sofferente.
Il rapporto diventa intriso di impotenza e quindi di aggressività e il potere curativo è delegato allo strumento tecnologico ritenuto in grado di produrre verità assolute laddove potrebbe, al massimo, porsi al servizio delle capacità percettive del medico espandendole.
L’universo simbolico del rapporto medico-paziente si sgretola e al suo posto emerge l’angoscia e l’aggressività.
Un altro caratteristico cambiamento in atto nel rapporto medico paziente è il progressivo venir meno del rapporto fisico reale e questo non tanto per l’uso della telemedicina che permette di ottenere consulenze specialistiche o esami anche a distanza ma proprio per una tendenza a non incontrarsi personalmente ma a “nascondersi” dietro i mezzi tecnologici, un po’ come sta avvenendo in tutti i rapporti umani, in modo tale che diminuisca “l’impegno” che il rapporto fisico reale richiede ad entrambi.
Anche in questo caso tutto appare più facile, meno impegnativo. E’ possibile disporre di tutto ciò che serve senza fare sforzi o attendere un tempo determinato .
Si scappa dal mondo reale in uno virtuale perfetto.
Ormai ci si cura attraverso le mail, sms, WhatsApp che annullano i limiti di tempo, essendo accessibili sempre, e la distanza tra il medico e il paziente si è azzerata - o è diventata infinita a secondo dei punti di vista - anche nelle regole del linguaggio dove spesso il lei , che marcava le distanza e i limiti almeno nella lingua italiana, abdica ad un tu che sbiadisce il rapporto impoverendolo di significato.
Ma si può avere di meglio perché nella realtà virtuale tutto è anche subito.
Per esempio all’interno della rete esistono degli ambulatori virtuali.
Luoghi immaginari dove l’utente può aggirarsi tra una serie di “stanze” in ognuna delle quali uno specialista virtuale è pronto a qualsiasi ora del giorno a rispondere alle domande del paziente anch’egli virtuale.
L’avatar del paziente interroga l’avatar del medico per guarire dai propri mali.
Un metaverso medico che oltrepassa tutti i limiti della cura dei pazienti così come l’abbiamo conosciuta finora.
Il rapporto medico-paziente come lo conoscevamo pare morto, ucciso in un “Delitto perfetto” per utilizzare il titolo di un famoso testo di Baudrillard nel quale troviamo il seguente brano:
“Col Virtuale entriamo non solo nell’era della liquidazione del Reale e del Referenziale, ma in quella dello sterminio dell’Altro. E’ l’equivalente di una pulizia etnica che non riguarderebbe solo singole popolazioni, ma si accanirebbe contro tutte le forme di alterità.
Il delitto perfetto.” ( pag 113, Il Delitto Perfetto, J.Baudrillard )
Quella della morte, che si scongiura con l’accanimento terapeutico.
Quella del volto e del corpo, che si perseguita con la chirurgia estetica.
Quella del mondo, che si cancella con la Realtà Virtuale.
Quella di ciascuno, che si abiliterà un giorno con la clonazione delle cellule individuali.
E semplicemente quella dell’altro, che sia sta diluendo nella comunicazione perpetua.
Se l’informazione è il luogo del delitto perfetto contro la realtà, la comunicazione è il luogo del delitto perfetto contro l’alterità.
Non vi sono più altri: la comunicazione.
Non vi sono più nemici: la negoziazione.
Non vi sono più predatori: la convivialità.
Non vi è più negatività: la positività assoluta.
Non vi è più la morte: l’immortalità del clone. Non vi è più alterità: identità e differenza.
Non vi è più seduzione: l’indifferenza sessuale.
Non vi è più illusione: l’iperrealtà. la Virtual Reality.
Non vi è più segreto: la trasparenza.
Non vi è più destino."
Vorrei adesso fare quello che potrebbe sembrare un breve volo pindarico e accennare ad un altro tipo di rapporto che è quello tra uomo e Natura, o meglio alle emozioni che possono scatenarsi nel momento in cui un soggetto umano entra in un rapporto di un certo tipo con gli elementi della natura selvaggia perché in esso, pare si possano ritrovare i limiti di una normatività.
Per farlo vorrei fare riferimento ad un libro piuttosto recente, da cui è anche stato tratto uno splendido docufilm, dal titolo: “ La pantera delle nevi” di Sylvain Tesson.
L’autore descrive l’ esperienza di un viaggio fatto accompagnando un famoso fotografo naturalista, Vincent Munier, che si è recato in Tibet per catturare le immagini di un animale raro e pochissimo fotografato : la pantera delle nevi.
Per poter avvicinare e quindi fotografare gli animali selvaggi ed in particolare la creatura più sfuggente tra di loro e cioè la pantera, Vincent dovrà affrontare una serie non indifferente di sacrifici.
Estenuanti marce, interminabili appostamenti in un ambiente freddo e ostile che lui e i suoi compagni accettano di volta in volta .
( pag 169, La pantera delle nevi, S. Tesson)
“ Qui nel canyon, guardavamo il paesaggio senza essere sicuri di raccogliere qualcosa. Aspettavamo un’ombra, in silenzio di fronte al vuoto . Era il contrario di una promessa pubblicitaria: sopportavamo il freddo senza avere la certezza di un risultato. Al “tutto e subito” dell’epilessia moderna si contrapponeva il “probabilmente mai niente” di chi è appostato. Il lusso di passare una giornata intera in attesa dell’improbabile!” ( pag 115, La pantera delle nevi, S. Tesson ).
Vincent riscoprirà l’esercizio della speranza provenendo da un mondo, il nostro ,in cui esiste solo la pretesa di sicurezza.
Riscoprirà la pazienza.
“ Avevo imparato che la pazienza era la virtù suprema: la più elegante , la più dimenticata. Aiutava ad amare il mondo prima di aver la pretesa di trasformarlo.”
Il sorprendente di tutto ciò è che in una realtà in cui si accettano limiti, responsabilità e norme imposte dalla natura, in cui la pretesa fa posto alla speranza che permette di affrontare il dolore e in cui l’onnipotenza diventa accettazione della propria limitatezza ( qualcuno potrebbe definirla castrazione) l’uomo sperimenta, così come Vincent ci dice di aver sperimentato, un senso di libertà e serenità ben più appagante e duratura del godimento maniacale che ci procura una realtà senza norma, responsabilità e limite.
In conclusione sperimentiamo quindi anche nel rapporto medico - paziente la fuga in atto dalla posizione in cui il principio normativo ci costringerebbe trasformando un rapporto di fiducia nel suo contrario e cioè un rapporto dove il dolore e l’angoscia lasciano il posto alla paranoia, all’aggressività e talvolta persino violenza.
L’alterità e la differenza si annulla nel nome di una falsa uguaglianza che ci renderebbe più liberi; ma esiste una libertà senza il limite? Quel limite che tutela me dagli altri e gli altri da me?
Riferimenti bibliografici
J. Baudrillard, (1996) Il delitto perfetto. Ed. It. Raffaello Cortina 2023.
S. Tesson, (2019) La pantera delle nevi. Ed. It. Sellerio 2020