Da tempo si è diffuso un criterio di cura per lo più ricalcato su una semplificazione del modello
della terapia medica: rimuovere il “male”, restituire allo stato di salute.
Ma possiamo pensare che ciò abbia davvero un senso, nel campo della psiche? Cos’è il “male”, è
forse solo un “pezzo” di noi sbagliato e fastidioso da rimuovere, e che cos’è mai un “prima”,
presunto felice, al quale dovremmo tornare?
Domande che aprono spesso ad inaspettati sviluppi di pensiero, ma solo a partire da un ascolto
sensibile ai moti dell’inconscio, un ascolto capace di sostare al cuore delle questioni dell’essere.
Una risorsa preziosa, ma anche un valore aggiunto, oggi, a livello culturale.
Dall’esperienza e dalla cultura della psicoanalisi emerge infatti una diversa prospettiva, certo più
complessa, ma anche più rispettosa della realtà del soggetto, che ci fa comprendere perché il
cosiddetto sintomo non può essere liquidato come un accidente, un male passeggero, o un cattivo
funzionamento dell’organismo.
Non è come in una malattia fisica, dove possiamo stabilire (e anche qui non sempre) un prima e un
poi – il dente era sano prima di cariarsi. Qui viceversa disagio esistenziale, malessere sintomatico,
eventi e relazioni della vita, si avvolgono in un complesso problematico, ove si tesse la storia
psichica della persona.
In questa prospettiva si può affermare che il sintomo è potenziale risorsa, occasione di apertura e
cambiamento, per le stesse ragioni per cui è al contempo riparo, difesa, nicchia. È tutt’uno con la
storia psichica, personale, irripetibile, del soggetto, e questo ne fa qualcosa di prezioso quanto di
scomodo al tempo stesso. Cancellarlo, anziché invitarlo a dirsi, equivarrebbe a cancellare la storia
stessa della persona, e con essa la possibilità di scoprirsi parte attiva in tale storia.
Da questi presupposti prende corpo il progetto dell’Opificio, che già nel nome offre le promesse di
un’opera condivisa fra talenti diversi in uno spazio dinamico, elaborativo, a più livelli di
partecipazione.