ovvero: inconscio e realtà virtuale, due facce della stessa medaglia
È possibile avere una maggiore comprensione di come è fatto l’uomo attraverso la conoscenza dei meccanismi di funzionamento del suo cervello?
È questa forse la domanda che ha spinto Freud, agli inizi della sua attività medica, a studiare gli effetti della cocaina sul sistema nervoso: “Ho letto sugli effetti della cocaina, il principio attivo della foglia di coca che alcune tribù indiane masticano per rendersi più resistenti alla fatica e alle privazioni […]. Ne ho ordinata un po’, e mi appresto a provarne in casi di malattia di cuore o di esaurimento nervoso, specie nella condizione che consegue all’astensione dalla morfina […]. Sono certo che la proverò e, come si sa, se uno prova qualcosa per un tempo sufficiente e si attende dei risultati, un giorno ciò può avverarsi. Basta solo un pizzico di fortuna…”.
È uno stralcio della lettera che Freud scrisse alla sua futura moglie Martha Bernays il 21 Aprile 1884. Come aneddoto a latere, gli studi di Freud spinsero C. Koller, oculista, a sperimentare con successo una soluzione di cocaina quale anestetico locale per le cornee, con un successo tale da ricevere l’appellativo di «Coca-Koller».
La scienza, sull’onda dei numerosi successi ottenuti nel campo della ricerca medica, forte della vena positivistica di cui è permeata, ha approfondito ed affinatolo studio del sistema nervoso, onde cercare di comprendere sul piano biologico l’essenza della natura umana.
In questo campo ultimamente la psiconeuroendocrinoimmunologia e la neurobiologia hanno per messo di conoscere intimamente molti dei meccanismi di funzionamento cerebrale.
Per numerosi anni la neurologia è rimasta divisa in due differenti correnti di studio: i localizzatori, cioè coloro che ritenevano che le funzioni superiori dipendessero da sedi o zone cerebrali ben distinte, e gli olisti, sostenitori di una visione della funzionalità biologica cerebrale intesa come totalità organizzata e non somma di parti differenziate.
Se è vero che è possibile rintracciare sulla corteccia cerebrale specifiche aree anatomo-fisiologiche deputate a ricevere stimoli sensoriali provenienti dagli organi di senso e aree capaci di dare il via a movimenti muscolari (homunculus di Panfield), resta difficile localizzare zone in cui rintracciare la funzione della coordinazione dei dati, la coscienza, la volontà, l’intelligenza, l’emotività, l’inconscio, ecc., cioè tutto quello che rientra nelle così dette funzioni cerebrali superiori.
A tal proposito, dagli anni sessanta e settanta sono stati svolti numerosi studi relativi alla pertinenza di differenti funzioni nei due distinti emisferi cerebrali, lavorando su alcuni pazienti a cui era stato reciso chirurgicamente, a scopo terapeutico, il corpo calloso, parzialmente o nella sua totalità, per cercare di contenere le manifestazioni sintomatiche di alcune gravi forme di epilessia. Con questo intervento infatti si recidono le connessioni anatomiche tra i due emisferi che diventano così isolati e nello stesso tempo autonomi l’uno dall’altro, Con una serie di stratagemmi tecnici è possibile stimolare così specificamente un emisfero senza che l’altro possa ricevere lo stesso stimolo.
Si è potuti cosi giungere a definizioni suggestive del cervello, come un parlamento bicamerale, con un emisfero sinistro smaliziato, verbalizzante ed analitico, e con un emisfero destro invece immaginifico, analogico, sensibile alle armonie (Michael S. Cazzaniga, Non sappia il cervello sinistro, Kos, ott. 84), e ipotizzare la presenza di due menti (una in ogni emisfero per ciascun cervello, con grande gioia degli organicisti circa il dilemma eziopatogenetico della schizofrenia, a tutto danno del fantasmatico schizococco.
Queste osservazioni hanno permesso però anche di dimostrare scientificamente ciò che ciascuno di noi empiricamente conosce per esperienza quotidiana e cioè che, nella elaborazione di stimoli ricevuti unilateralmente, ciò che viene comunicato alla parte in ombra (l’altro emisfero) sono gli attributi dello stimolo originario, quindi informazioni astratte, non lo stimolo effettivo. Esiste un’analogia tra questo e l’uso del linguaggio o della scrittura: una parola non evoca di per sé nessuno stimolo diverso da quello di un contrasto chiaroscuro tra segni o di differenti attributi fonetici, ma nella elaborazione mentale l’informazione che ne scaturisce è, guarda caso, la “rappresentazione” degli attributi di immagine, non visiva, ma psichizzata, e quindi astratta, che attribuisce cosi un senso ad uno stimolo di per sé privo di significato.
Inoltre, l’evocazione di immagini visive, ricostruite internamente, utilizza percorsi neurofisiologici che non sono quelli delle aree cerebrali deputate alla ricezione ed elaborazione degli stimoli ottici provenienti dall’apparato visivo (la corteccia occipitale per intendersi). In questa dimensione assumono una dignità quasi scientifica il simbolo ed il sogno.
Le potenzialità (positiva e negativa) insite in questa dimensione mentale erano sicuramente già note e fonte di speculazione da più di duemila anni. Narra Socrate, nel Fedro di Platone, che Thot, il dio egizio della scienza e della magia, presentò la propria invenzione della scrittura al re Thamos: “Questa scoperta, o Re, renderà gli egizi più sapienti e più capaci di ricordare. Perché con questo artificio si ottiene memoria e sapienza”. E il Re: ”Thot, tu sei certamente espertissimo nelle invenzioni, ma la medesima persona che sa produrre nuove tecniche non è essa stessa in grado di giudicare qual parte di danno e qual parte di vantaggio ciascuna tecnica in sé apporti per chi debba farne uso. Ora tu sei il padre della scrittura, ed il tuo amore per la tua creatura t’ha fatto affermare il contrario di ciò che essa può fare. La tua scoperta infatti indurrà nell’anima l’oblio, perché non si eserciterà più la memoria. Gli uomini, vedi, non ricorderanno più da sé nella loro interiorità, bensì grazie all’aiuto estraneo della scrittura, per mezzo di segni che provengono da fuori. In conclusione: non hai trovato un rimedio per accrescere le facoltà della memoria, ma soltanto un arteficio per ripresentare più facilmente qualcosa alla mente. Non realtà di sapere tu offri, ma la sua semplice apparenza. Dalla tua invenzione deriveranno uomini capaci di trarne molte nozioni anche senza maestro, uomini che hanno l’aria di pronunciare giudizi su infiniti argomenti, ma per lo più non conoscono effettivamente nulla. Uomini arroganti e boriosi: saccenti, non saggi”.
I problemi sorgono di fronte all’impossibilità di dare una collocazione, nell’ottica neurobiologica, a frasi come questa: “…se le rane potessero volare”.
Infatti, se seguiamo esclusivamente i percorsi della logica, riteniamo tale frase priva di senso, ma allo stesso tempo essa non ci lascia indifferenti, e provoca in noi un certo stato d’animo.
L’esempio sulla rana, suggeritomi involontariamente, come finale di una sua creazione poetica, da mia nipote quando era piccolina, chiama in causa quest’animale, molto spesso sacrificato per gli studi di neurofisiologia, ma anche valorizzato dalla fantasia favolistica per la sua dote trasformista, evocata dal “semplice” bacio di una fanciulla (bella o brutta).
Ci si accorge infatti che, nonostante tutta l’attenzione che la scienza le dedica, la rana spesso e volentieri non ha nessuna intenzione di collaborare, mostrando così un livello superiore di risposta riflessa condizionata (che ingrata…).
Si è potuti giungere a stimare le dimensioni in numeri del nostro cervello: da 100 a 1000 miliardi di cellule nervose (neuroni), ciascuna delle quali in connessione diretta o indiretta con altre 60000 attraverso una rete di comunicazione lunga più di 160000 chilometri e con più di 100 bilioni di “saldature”, percorsa da informazioni che viaggiano alla velocità di 470 chilometri l’ora, tutto questo per una capacità di recezione di 10 milioni di informazioni ogni 10 secondi.
Anche se la rana è più modesta nel suo equipaggiamento neurologico, tuttavia spesso lo usa per scelte decisionali di comportamento che mettono in crisi il più sofisticato dei sistemi-computer, beffando la regola dei riflessi condizionati, anche se è vero che il suo apparato visivo sembra strutturato per questo: un apparato visivo “intelligente”, che fa “vedere” alla rana solo ciò che le serve (contrasto dei movimenti, spigoli, ecc.), ma che la rana è a volte portata ad usare con apparente stupidità quando “non sa a cosa serve ciò che vede”.
Un esempio concreto che ci può riguardare da vicino è l’atteggiamento umano di fronte ai computer da lui stesso creati, atteggiamento che porta (ma bisogna perdere la pazienza) a considerare il computer stupido perché si ostina a funzionare (correttamente) secondo gli schemi impostati, impedendo così ostinatamente, alla intelligenza umana, di prendere atto della propria parte di irrazionalità nella pretesa emotiva, viscerale, e per questo irrinunciabile, di volere comunicare con qualcosa di diverso; ed ecco che allora prende campo la realtà virtuale, percepita più vicina perché rimette in gioco tutta la sensualità che una semplice tastiera aveva precedentemente cortocircuitata direttamente verso il cervello.
Il computer, nato come strumento di amplificazione della logica e della intelligenza umana, diventa veicolo di una sorta di regressione, inevitabile ed irrinunciabile allo stesso tempo, verso il corpo. Si comincia ad intravedere nel linguaggio matematico e cibernetico ciò che Freud aveva letto in chiave psicoanalitica.
Accennavo prima alla dignità acquisita in campo scientifico dall’inconscio e dai sogni.
Sono stati individuati nella corteccia cerebrale dei “moduli” funzionali, ciascuno costituito da circa 2000 neuroni (per un totale di milioni di moduli) e ciascuno con capacità elaborative complesse di informazioni (Szentagothai), eredità di studi ed ipotesi scaturite da teorie come quella quantistica dell’intelligenza di sir John Eccles, o quella neurobiologica della consapevolezza di Gerald Edelman, fino ad arrivare a isolare le unità mentali, dette psiconi, capaci di esprimere esperienze unitarie nella coscienza.
Quanto detto finora fa intuire come diventi ovvio, quasi banale, affermare “che tutto ciò che a partire dalle stimolazioni sensoriali si trasforma in modelli mentali e produce l’idea di realtà è una nostra invenzione: ciò che in noi si presenta come realtà è ed è sempre stato una realtà virtuale”, sono queste le parole di E. Monzini, docente di Tecnologia dell’Architettura al Politecnico di Milano, tratte dal suo saggio Artefatti. Le allucinazioni, le fantasie, l’isteria (per fare qualche esempio), paragonabili ad una sorta di diplopie mentali, sembrano più a portata di mano, più giustificabili nel loro esistere biologico.
In questa ottica non si è poi così lontani dal comprendere come l’attività onirica prenda forma, semmai resta inalterata la suggestiva curiosità del perché, del suo senso nel non-senso.
L’inconscio come funzione mentale, atta a mettere ordine nel disordine-caos interno, scaturente dal confronto con la cultura, dal confronto tra la realtà virtuale interna- le protorappresentazioni, gli elementi beta di Bion – (ordinata secondo i principi del piacere-desiderio), ed il principio di realtà. È evidente che fare aderire a queste osservazioni la seconda legge fisica dell’entropia (per cui dall’ordine è possibile andare verso il disordine, ma non viceversa) è improponibile, così come appare improponibile per la rana di agire secondo schemi pensati dagli scienziati per soddisfare il dogma dell’istinto di conservazione.
Articolo pubblicato nel libro La crescita misconosciuta, collana di studi psicoanalitici Rappresentazioni, ETS Edizioni, 1997